martedì 31 gennaio 2017

D’Alema: il comunista dei poteri forti

Non volevo proprio farlo questo pezzo. Massimo D’Alema va lasciato al suo tortuoso addio alla politica. Dal momento però che i giornalisti da lui piazzati negli anni alla Rai, e non solo, pagano il proprio obolo dedicandogli spazio e attenzione mediatica, scrivere ci tocca per ricordare che D’Alema ha un’idea leninista del suo partito ma non è un uomo di sinistra.




Gli viene riconosciuto di aver portato il suo partito alla Presidenza del Consiglio dopo la carica di Ministro della Giustizia di Palmiro Togliatti 52 anni prima e ci si dimentica che - come Togliatti - D’Alema fu usato per fare quel lavoro sporco intollerabile alla sua base elettorale se non fosse stato proprio un leader di sinistra ad attuarlo:

- chiudere con un’amnistia la partita delle epurazioni dei fascisti nella Pubblica Amministrazione, trattenendone in servizio la maggior parte, ai tempi di Togliatti;

- bombardare la Serbia nel 1999  ai tempi di D’Alema quando, in aggiunta, rinunciò a processare in Italia i soldati americani che avevano nel 1998 ucciso 20 persone sul Cermis e falcidiato una cabina della funivia per l’ebrezza di volare basso.



Non pago della prova data, D’Alema ha impiegato gli anni successivi ad attaccare tutti i segretari del suo partito, contaminati dal grave difetto di non essere lui.

Nel 2007 accusava Veltroni di deriva leaderistica:
«Io non odio Veltroni, - dichiara l’ex premier -  ma gli imputo la colpa del leaderismo che ci ha portati dove stiamo.»

Nel 2009 inveiva ancora contro Veltroni, “Ci ha fatto perdere”, diceva, e ancora sempre nel 2009 accusava Franceschini di attaccarlo “per andare sui giornali”.

Nel 2013 accusava Bersani di essere un “uomo dell’800”, “matto”, e di portare “il partito alla rovina”.

Nel frattempo si era fatto menare per il naso da Silvio Berlusconi.  Dopo, infatti, aver stipulato la pax televisiva con la visita a Cologno Monzese nel 1996 e aver detto:

«Mediaset è un patrimonio per l’’Italia, un’ ’impresa strategica» dovette subire il fallimento della famosa Bicamerale per le riforme istituzionali dove Berlusconi si ritirò all’ultimo momento.

Eh sì, perché nel 1997 D’Alema aveva ormai lasciato a Berlusconi le sue televisioni, anche quella Rete 4 che secondo la Consulta avrebbe dovuto essere sparata su un satellite.

D’Alema permetteva così che il più grande lobbista d’Italia potesse continuare a farsi gli affari suoi e andare a puttane sulla pelle degli Italiani ridotti dalla malagestione berlusconiana nel 2011 alla peggior crisi di sistema che la storia repubblicana ricordi.

Chissà come si trova Travaglio ora a supportare D’Alema l’uomo che lui stesso, Travaglio, ha accusato nel 1998 di aver trasformato Palazzo Chigi in una banca d’affari «l’unica merchant bank dove non si parla l’inglese»-

E veniamo alle accuse rimbalzate sui giornali in questi giorni nelle quali D’Alema mostra ancora una volta di non apprezzare chi ha energie, coraggio e determinazione per fare leggi contrarie agli interessi del padrone del vapore. Anzi utilizza le resistenze agite dagli interessi costituiti contro le leggi sulla buona scuola,  sulle banche popolari e sulla pubblica amministrazione come riprova del fallimento delle stesse.


Le Riforme di Renzi sono lì ostacolate ma operative e hanno inciso anche recentemente sul licenziamento di assenteisti prima intoccabili, lo smantellamento di consorterie feudo bancarie che consentivano l’ascesa solo agli amici, e l’avvio di una selezione di personale insegnante che abbia cari i diritti dei ragazzi almeno quanto i propri. (Riforme del governo Renzi: da Travaglio solo gufate).

Si può eccepire moltissimo del passato di Massimo D’Alema ma egli rimane con coerenza un uomo che non ha mai dato valore ai destini personali della gente piccola, la gente che non conta.

Un po’ l’ha sterminata in Kossovo, un po’ l’ha uccisa ogni giorno negandole un paese decente in cui vivere.
Libri Consigliati:

 


Il Peggiore: Ascesa e caduta di Massimo D'Alema e della sinistra italiana (Reverse. I protagonisti dell'antipolitica)
"La peculiare parabola di Massimo D’Alema – biografica, psicologica, politica – disvela il senso profondo della crisi che ha colpito la sinistra italiana.
Ha teorizzato il primato della politica e l’ha ridotta a puro tatticismo; voleva sbaragliare Berlusconi e lo ha fatto arricchire; idolatrava il partito e lo ha distrutto; ha partorito l’Ulivo e l’ha ammazzato in culla (“Prodi non capisce un cazzo di politica”); si proclama erede di Berlinguer ma si circonda di affaristi, coltivando passioni non certo popolari (le scarpe fatte a mano, Sankt Moritz, la barca a vela, gli chef stellati, gli abiti firmati).
Ecco la storia di un uomo che spiega perché oggi la sinistra scambia la richiesta di politica per antipolitica, ritrovandosi senza più una storia e senza una nuova identità."


Monica Montanari



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