venerdì 10 febbraio 2017

Il Pd esplode: siamo alla resa dei conti

Pezzo difficile e doloroso, d’altronde non si poteva immaginare di arrivare alla scissione con i modi asciutti che si usano a destra. Il Pd , la partecipazione, l’impegno politico, la passione, la tradizione, un elettorato che è lo strato più avanzato del Paese: tutto concorre in queste ore a rendere il Pd assimilabile alla Beirut degli anni ’80. Macerie e cecchini appostati.



Sotto il profilo degli eventi si registrano gli stop and go della minoranza scissionista sul congresso: subito, no anzi dopo, né subito né dopo.

A dare un colpo di grazia definitivo alle già confuse idee di Pier Luigi Bersani giungono le inconcludentissime motivazioni della Consulta pubblicate ieri, con 90 pagine di acqua calda sul fatto che le leggi elettorali non devono ostacolare la formazione di una maggioranza di governo. Ora mi chiedo con tutto il rispetto per i togatissimi se non sia un pelo tautologico attribuire alla legge elettorale il dovere di funzionare.

Comunque, palla al centro, riparte la contesa: gli uni, i renziani, a ribadire che la Corte non tiene il Parlamento a fare un bel nulla e che si può votare subito, gli altri - quelli che Claudio Cerasa sul Foglio luminosamente definisce il partito dell’omogenità-tà-tà - a dire invece che al voto mai, senza una legge che garantisca appunto… indovinate? L’omogeneità.

Nessuno sembra curarsi che la legge elettorale - a rigore di motivazioni della Consulta - non debba ostacolare la praticabilità di una maggioranza di governo e che dunque nell’assetto attuale due bei proporporzionali puri alla Camera e al  Senato pur con omogenei (ta-ta) ostacolerebbero, eccome se ostacolerebbero.




Le contraddizioni si sprecano e - a meno che non indichino una devastazione cerebrale generalizzata - sono spia di un fatto, se possibile ancora peggiore: la strumentalità di tutte, e dico nessuna esclusa, presa di posizione di queste ore. I motivi sono i più disparati: dal tentativo di ridisegnare i perimetri delle alleanze, alle tattiche per spiazzare l’avversario.

E vai con la cronaca: i senatori hanno prodotto in queste ore ben tre documenti debitamente sottoscritti da firmatari ansiosi di schierarsi. Abbiamo, ultimo arrivato, la mozione del no a nuove tasse con 35 firmatari renziani. Prima c’era stato  il documento dei 40 bersaniani, franceschiniani e turchi a sostegno di Gentiloni per il voto nel 2018 - e quindi contro Renzi. Poi è arrivato il documento dei 17 di Orfini contro il premio di maggioranza alla coalizione e a favore del voto subito.

Bene, 12 senatori firmano entrambi questi due ultimi documenti: tutto e il contrario di tutto. Appunto. Perché? Sono impazziti? No. Semplicemente i parlamentari PD nell’incertezza su come andrà a finire la guerra aperta corrono a schierarsi nella speranza di salvare il seggio e i più prudenti, per non sbagliare, tendono a schierarsi dappertutto.

Nel fronte renziano si va da Graziano Del Rio che esorta a riunire, a Dario Franceschini che esorta a rallentare e a tornare alle coalizioni, a Renzi che dice che non si candiderà premier, a Del Rio che dice che Renzi si candiderà Premier, a Matteo Ricci che ieri twitta in serata: «#Electionday a giugno. Mille comuni, Sicilia e Politiche. Altroché congresso. Legge elettorale poi città e Italia. Stop beghe interne».

 Lo sport generale è quello di buttare un pollo arrosto in mezzo alla piazza nella speranza che il nemico esca per andarselo a prendere così che tu appostato possa impallinarlo.
Moltissimi i ballon d’essai, i tatticismi, in un gioco del cerino generalizzato dell’ “ah ma allora tu…”

La perla di tutto questo è il simulacro del ministro Andrea Orlando a cui la leggenda aurea attribuisce l’investitura di due pezzi da novanta: Sposettti che affiderebbe a lui il tesoro dell’ex PCI e Giorgio Napolitano. A rilanciare quest'ultima indiscrezione sono i giornalisti del Manifesto con l'unica pezza d'appoggio di un avvistamento risalente al 16 dicembre scorso in Parlamento quando Napolitano fu visto passeggiare a braccetto con il suddetto Orlando.

Come ben scrive Francesco Verderami sul Corriere siamo in piena Prima Repubblica ben prima che una legge elettorale definitiva si sia depositata nelle coscienze. Queste cronache per iniziati sono un vecchio incubo cui si sperava di non tornare.

Intanto la crisi del PD è solo un tassello di una più generale crisi di sistema del Paese Italia, senza un impianto istituzionale stabile e governabile, in predicato per una procedura di infrazione europa, con il sistema creditizio a rischio, alla vigilia della riduzione del quantitative easing di Draghi, con uno spread tornato a 200 punti e una crisi di fiducia di consumatori e investitori che ha di nuovo paralizzato la domanda interna.



La tempesta perfetta, appunto quella che si sapeva sarebbe arrivata con il no al referendum, quella che il Paese non poteva permettersi e che la classe dirigente di un tempo avrebbe saputo scongiurare.

La classe dirigente già. Ma quale?  Ormai comperata dai francesi si avvia a godersi i propri capitali in qualche isola tropicale lasciando gli italiani al loro destino. Restano a innalzarne i vessilli i direttori di qualche grande testata nella speranza di non perdere le sovvenzioni all’editoria.

Ma non durerà.


Monica Montanari

Fonti e documenti


Guerra interna PD si veda Carlo Bertini su La Stampa
Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera
Prossima direzione PD si veda Verderami sul Corriere della Sera:
Cosa farà Renzi si veda Ansa
Guerra per bande nel  Pd su Quotidiano.net (consigliassimo)
Orlando, Sposetti e Napolitano su Il Manifesto
Mozione antitesi su Repubblica
Motivazioni Consulta e possibilità di votare subito su Repubblica


N.B. Sarebbe stato bello leggere l’editoriale di Claudio Cerasa sul Foglio di oggi, ma l’edizione online è blindatissima a pagamento.
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